“Fango”
è la canzona che più amo di Jovanotti (Lorenzo Cherubini). L’amo per le sue
parole e per i concetti espressi, dipinti, scolpiti. “FANGO” è una parola che
amo, Davvero. Penso al termine latino che ne rappresenta l’essenza, HUMUS e non
posso fare a meno di riflettere sul fatto che da questa parola ne derivi un’altra
di assoluta bellezza: UOMO. Siamo esseri umani, siamo uomini, siamo humus,
siamo fango. Il fango se ne sta lì, per terra, nelle pozzanghere, solo, in
attesa di essere calpestato, schiacciato, dimenticato eppure non rinuncia mai a
urlare al mondo le sue componenti: acqua e terra, che per noi rappresentano la
vita. “Io lo so che non sono solo anche quando sono solo”: è tutto qui il senso
del nostro esistere, penso, mentre le parole scorrono nella mia testa per
raggiungere lo stomaco. Ognuno è solo al mondo ma al contempo non lo è perché
il pensiero che ci rende umani e che spesso è altro da noi, ci fa costantemente
compagnia. Sappiamo che anche nella solitudine più totale non siamo abbandonati
al nulla, al vuoto. Ci basterà pensare al resto dell’umanità che ci circonda,
al mondo che pulsa e che vibra fuori dalle mura del nostro dolore per trovare
risposta alla nostra sofferenza e capire come curarci con le persone, lasciarci
contagiare dalla bellezza dell’essere solidali, stretti, avvinghiati, partecipi
dell’anima degli altri. Jovanotti in questa canzone ci parla di un gettarsi
sulle cose prima del pensiero, di un sollevarsi per guardare le cose dall’alto
e contemplarne la bellezza, la preziosità. Ci parla di scale da salire che
vengono paragonate a scivoli perché se è vero che la vita è un percorso in
salita è anche vero che il dolore, la sofferenza, la disperazione, possono
diventare la via d’accesso per la nostra felicità. Sta qui il senso di tutto,
il senso del dolore: trasformare le scale in scivoli, abbracciare la
disperazione è farne felicità. Non cercare la fuga dal dolore ma imparare a
danzare sul suo dorso. E ancora, il cantautore scrive di pericoli concreti,
reali, fagocitanti quali il non riuscire più a percepire la vita e le emozioni,
l’incapacità di sentirci l’anima nel corpo, la felicità nelle membra e la
voglia di vivere nell’accettazione della nostra prismatica essenza. La vita è
un macigno ma noi siamo il vento che lo solleva. E queste parole suonano come
un invito a fuggire l’aridità emotiva, la siccità etica. L’incomunicabilità che
caratterizza il nostro mondo viene dipinta con poche immagini ma ben precise ed
evocative: dialoghi interrotti, mozziconi di pensieri, frammenti di
riflessioni. Perché il mondo corre e strilla, ci urla nelle orecchie e rischia
di farci confondere, di farci divenire sordi. Tocca a noi, alla nostra forza e
alla nostra volontà imparare a cantare con una voce che, seppur non più urlante,
sia più forte e persuasiva. L’amore diventa lo strumento, unico e
indispensabile che può tenere in vita l’umanità, fungere da cemento tra noi e
gli altri, tra noi e la felicità. “E mi confondo con il cielo e con il fango”,
conclude poi l’autore. E ha ragione perché il senso di tutto, il senso di
quello che siamo, forse sta proprio nell’incontro tra le labbra terra e quelle
del cielo. In questo bacio tra miracolo e paura.
“Io lo so che non sono
solo
anche quando sono solo
io lo so che non sono
solo
io lo so che non sono
solo
anche quando sono solo
sotto un cielo di
stelle e di satelliti
tra i colpevoli le
vittime e i superstiti
un cane abbaia alla
luna
un uomo guarda la sua
mano
sembra quella di suo
padre
quando da bambino
lo prendeva come niente
e lo sollevava su
era bello il panorama
visto dall'alto
si gettava sulle cose
prima del pensiero
la sua mano era piccina
ma afferrava il mondo intero
ora la città è un film
straniero senza sottotitoli
le scale da salire sono
scivoli, scivoli, scivoli
il ghiaccio sulle cose
la tele dice che le
strade son pericolose
ma l'unico pericolo che
sento veramente
è quello di non
riuscire più a sentire niente
il profumo dei fiori
l'odore della città
il suono dei motorini
il sapore della pizza
le lacrime di una mamma
le idee di uno studente
gli incroci possibili
in una piazza
di stare con le antenne
alzate verso il cielo
io lo so che non sono
solo
io lo so che non sono
solo
anche quando sono solo
io lo so che non sono
solo
e rido e piango e mi
fondo con il cielo e con il fango
io lo so che non sono
solo
anche quando sono solo
io lo so che non sono
solo
e rido e piango e mi
fondo con il cielo e con il fango
la città un film
straniero senza sottotitoli
una pentola che cuoce
pezzi di dialoghi
come stai quanto costa
che ore sono
che succede che si dice
chi ci crede
e allora ci si vede
ci si sente soli dalla
parte del bersaglio
e diventi un appestato
quando fai uno sbaglio
un cartello di sei
metri dice tutto è intorno a te
ma ti guardi intorno e
invece non c'è niente
un mondo vecchio che
sta insieme solo grazie a quelli che
hanno ancora il
coraggio di innamorarsi
e una musica che pompa
sangue nelle vene
e che fa venire voglia
di svegliarsi e di alzarsi
smettere di lamentarsi
che l'unico pericolo
che senti veramente
è quello di non
riuscire più a sentire niente
di non riuscire più a
sentire niente
il battito di un cuore
dentro al petto
la passione che fa
crescere un progetto
l'appetito la sete
l'evoluzione in atto
l'energia che si
scatena in un contatto
io lo so che non sono
solo
anche quando sono solo
io lo so che non sono
solo
e rido e piango e mi
fondo con il cielo e con il fango
io lo so che non sono
solo
anche quando sono solo
io lo so che non sono
solo
e rido e piango e mi
fondo con il cielo e con il fango
e mi fondo con il cielo
e con il fango
e mi fondo con il cielo
e con il fango”
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