Vivere la vita che ci capita, portare sulla pelle e nelle ossa
il peso della nostra esistenza e provare a sopravvivere sempre e comunque.
Alice sa che la vita può prenderti in giro con la sua forza, le sue illusioni e
le sue speranze. E’ una ragazza poco più che ventenne e dentro di sé conserva
la storia di un breve ma intenso vissuto: l’essere una figlia adottata,
platonicamente innamorata di un padre buono ma disorientato come Raimondo e in
continua competizione con una madre dominante, Delia, cardiochirurgo
ossessionata dalla morte e dal fermarsi dei cuori. Alla ricerca di un baluardo
dove arrestarsi per riprendere fiato, Alice si ritrova imprigionata nelle
parole di Ana e dei suoi seguaci. Ana è la dea dell’anoressia, è la
trasfigurazione del corpo, la sublimazione dell’anima. “Stringimi prima che
arrivi la notte” è la storia di un’apparente disgregazione familiare vicina
alla vita di ognuno di noi più di quanto siamo disposti ad ammettere. È la
storia dell’abbandono progressivo e progettato del proprio corpo ma è anche il
racconto di un amore universale che insegna il senso del dolore e del perdono,
un amore che non riesce a fermarsi davanti alle insidie del vivere e che
ricerca la felicità nel quotidiano e nelle persone. Un romanzo corale sulla
difficoltà dell’esistere ma anche sulla meravigliosa bellezza del genere umano. ("Stringimi prima che arrivi la notte", Anordest Edizioni, 320 pagine, euro 12,90)
INCIPIT
UNO
il conteggio delle ossa
"Ti
ho perso che non ti avevo ancora trovato, quando ancora non ero che una
possibilità tra infinite e tu come un mago della vita hai abbracciato
quell’immensità per prendere me, tirarmi via dal nulla e farmi divenire
qualcuno. Non ricordo quando, non ricordo dove. Porto dentro solo la parvenza
di un odore, quello del tuo dopobarba fresco alla menta ma forse, appunto, è
solo un’illusione, il ricordo di quello che c’è stato dopo. E il dopo per noi è
stato tutto, come tutto è quello che tu hai di me: il mio sorriso, i miei
occhi, il senso delle mie lacrime, le labbra delle mie urla.
Ora
siamo a casa, solo noi due e io corro, corro e non so più chi sei, non so più
se ne vale ancora la pena senza te, senza noi e i nostri corpi avvinghiati e le
mie labbra sulla tua pelle e le tue mani tra i miei capelli.
Corro
mentre toccandomi il costato premo lì dove le dita per poco non affogano. Ho
addosso ventiquattro costole perfette, visibili, sporgenti come spuntoni di
roccia che si gettano nell’aria, stalattiti che piombano a picco nel mondo.
Ventiquattro costole testarde e appuntite che spingono da sotto la pelle e
divorano a morsi la carne bianca e sottile come un velo d’aria steso sopra un
burrone. Trentaquattro vertebre sottili che si diramano dal centro della
schiena, dischi precari, ossa messe lì solo per caso, in procinto di cadere,
sprofondare all’interno, bucare i polmoni, perforare il cuore. Fino a morire,
fino ad uccidere. Sono fatta così, sono un mucchietto d’ossicini tremolanti,
inutili, insulsi. Questo è quello che resta di me e mentre io mi sciolgo
nell’aria tu mi guardi con quei tuoi occhi che bucano l’anima ma non riesci a
vedermi. Perché non mi vedi? Perché non vedi che il mio corpo è sparito,
prosciugato, come risucchiato nel nulla? Come hai fatto per tanto tempo a non
accorgerti che al suo posto solo il ricordo di una donna resta a parlare, a
pesare sul presente, su quello che non c’è più? La mia carne è poca e tenta
disperatamente di restare attaccata alle ossa, di aderire piano alle sporgenze dei
fianchi, alla fragilità del collo, all’acutezza amara e secca degli zigomi. Io
non sono più una donna, la mia anima non alberga più nelle fattezze di un
essere umano ma abita un ricordo, occupa gli antri sempre più aridi di uno
scheletro spossato. Le mie dita sembrano stuzzicadenti sottili e mi fanno male
come se stessero per spezzarsi. Ma tu non vedi, sei cieco, sei altrove. Sei
partito, lo so, sei andato via per sempre. La tua mente che è la parte migliore
di te è altrove, ad inseguire graffi d’amore scolpiti nel cielo. Io corro e
intanto tocco il maglione che ho indosso, lo avvicino al corpo, lo stringo a me
noncurante dello scricchiolare del vuoto che ho dentro. Corro selvaggia
attraverso le stanze di casa nostra, una corsa buffa, ridicola, patetica, un
culo piatto che muovo senza decenza, senza bellezza. Provo a evitare gli
ostacoli, gli oggetti, i mobili che ne occupano l’interno. Corro senza sosta e
puntualmente urto contro gli spigoli del tavolo, le maniglie delle porte
lasciate distrattamente aperte come fosse una gara a chi riesce a farsi più
male. Gemo, lo faccio in silenzio. Ogni lamento, anche uno solo potrebbe
togliermi quel poco di forza motrice che ancora riesce a muovermi il corpo. E
mi sento ridicola, sai? Sono un mucchio di cenere sparsa che corre zoppicando
tra le sue cose, un accenno di donna che pencola nel buio.
Tu
mi insegui, corri dietro di me e posso sentire i tuoi passi pesanti eppure così
leggeri , quei passi che sono solo i tuoi, sono il tuo miracoloso modo di stare
al mondo. Sei un uomo spossato, stanco ma felice ed è per questa tua felicità
improvvisa che io mi sento morire. Mentre provi ad afferrare qualcosa di me, un
braccio, un lembo del maglione, una ciocca di capelli, urti anche tu contro gli
oggetti duri di casa ma contrariamente a quanto faccio io, non nascondi il
dolore strozzandolo in gola. Tu urli, imprechi contro il diavolo e io ho paura
della tua voce assatanata, forte come non ho mai sentito. Vedi quanto siamo
ridicoli? Costringiamo i nostri corpi a una corsa frenetica che ci sta
lasciando senza fiato. Eppure la casa è così piccola: due stanze, un bagno e
una cucina. Vedi come ci guardano stupefatti gli oggetti di questa casa? Il portaombrelli di porcellana sembra desideri fracassarsi appresso alla
nostra corsa, il salotto con le poltrone in pelle nera rimane impietrito, la
cucina con i piatti sporchi ammucchiati sul tavolo e poco più in là,
leggermente di lato, le stanze da letto col mobiletto in ferro battuto
trattengono il fiato mentre il quadro di un finto Botero non sa cosa dire. E
noi? Noi sappiamo cosa dire? Sappiamo che parole usare davanti al frastuono
della vita e a quel suo urlare feroce che ci ottura le orecchie? Ora sono
arrivata a destinazione, il bagno, quello sempre in ordine in fondo al
corridoio, afferro la maniglia, apro la porta e mi getto dentro come un oggetto
rotto che viene buttato via, come una speranza violentata e abbandonata a
terra. Tu non fai in tempo a ficcare un piede dentro per evitare che la porta
venga chiusa. Allora io giro svelta la chiave nella serratura e un grugnito di
ferro contro ferro è la sua risposta sgarbata al mondo. E tu cosa fai adesso?
Non riesco a vederti da qui. Aspetta, avvicino l’occhio alla serratura e ti
osservo. Ti stai accucciando ai piedi della porta, poggiato su un fianco, la
fronte contro il legno, la mano che accarezza la superficie liscia della
parete. Dall’altra parte, distante come se questa porta tagliasse a metà
l’universo, io me ne sto rannicchiata nella tua stessa identica posizione, con
le gambe raccolte come per volerle scaldare e la mano che afferra la maniglia
fredda poco sopra la mia testa. Quanto siamo simili io e te, papà? Quanto si
assomigliano i nostri occhi e le nostre bocche e i nostri sorrisi e le nostre
lacrime?
“Ali ci sei?” mi dici con la tua voce calda e turbata come quella di un
bimbo che cerca di chiedere scusa, una voce improvvisata perché non hai avuto
il tempo di costruire grandi discorsi. Vorresti abbracciarmi in questo momento,
lo so, vorresti baciarmi la fronte, stringermi tra le tue braccia come quando
ero piccola e avevo la febbre. Un bacio sulla guancia, una pezza d’acqua fredda
sulla fronte, la favola di Barbablù e la febbre spariva. Eri un mago, lo sei
tuttora. Sono io che sono cambiata. Sono io che non credo più nelle favole.
“Cosa sono stata per voi? Il ripiego alla vostra sterilità? Puoi dirmelo
ora. Posso farmelo scivolare senza troppo dolore”, ti rispondo mentendo anche a
me stessa.
“Hai ragione. Probabilmente se io e tua madre non fossimo stati sbagliati
nei nostri corpi e avessimo avuto la capacità di generare un figlio nostro, che
fosse uscito dai nostri corpi intendo...”
Mi mordo le labbra, stringo gli occhi, li serro, li acceco. Provo a
graffiare la porta ma le mie unghie mangiucchiate fino al sangue scivolano
inesorabilmente, perdono quota, si schiantano sulle gambe, sui jeans taglia
trentaquattro che sembrano vestire l’aria. Ho mentito, non sono in grado di
reggere la verità, di ascoltarla dalla tua bocca.
“Ma in ogni caso ti abbiamo amata e ti amiamo tuttora, questo lo sai. Che
senso ha, in fondo, l’origine, la provenienza? Non sei uscita dal corpo mio e
di tua madre, certo, e allora? Cosa importa? Se c’è l’amore c’è tutto.”
Scanso un sorriso con la mano, mi tocco il viso con un movimento stretto,
sposto i capelli dietro le orecchie. L’amore. L’amore è il mio problema,
l’amore mi ha distrutta anche se non riesco ad ammetterlo. Ti amo papà di un
amore indescrivibile, amore che non puoi nominare, amore che ti corrode le
membra, amore che ti spezza le ossa, amore che ti mangia la carne lasciandoti
addosso il peso di quaranta chili di donna. Vorrei amarti di meno, a volte,
perché so che tu sei irraggiungibile, distante, impossibile. Sei mio padre
adottivo, quello che mi ha tenuta tra le braccia da quando ero così piccola da
non poterne serbare neanche memoria, quello che mi ha cantato infinite ninne nanne,
quello che mi ha accompagnata alle elementari il primo giorno e alle medie il
primo giorno e al liceo il primo giorno. Tu sei il mago del sorriso, papà, sei
il mago dell’amore e della gioia. E io ho bisogno di tanta magia per inventare
storie a cui credere. Vorrei essere un posto magico, papà, un posto felice, un
posto per te, per farti stare bene ma tu sei un buco invece, una voragine.
Vorrei infilarmi piano tra le tue braccia come sempre, come un topo che si
rintana per paura di un rumore, come un’anima che rosicchia l’idea della
felicità.
“Non avreste dovuto farlo. Non avreste dovuto adottarmi. I figli non sono
carne da usare per riempire buchi. Siete stati egoisti.”
Parlo con cattiveria. Anche se non voglio, non posso trattenere il veleno.
Tu annuisci involontariamente con la testa e il sudore che ti cola dalla
fronte. Egoisti, ripeti impercettibilmente tra te e te. Ora inizi a ricordare,
non sai fare altro che ricordare e io questa storia, la nostra storia, la
conosco anche troppo, mi è entrata dentro senza veli, senza pudore, senza
decenza. Vuoi ricordare ancora una volta, papà? Vogliamo fare questo viaggio di
nuovo? E allora facciamolo, ricordiamo, dico, cerchiamo il senso di ogni cosa
nel passato. Io ormai so tutto e tutto fa parte di me. Il mio passato è un
mucchio di scartoffie, un abbandono che precede la nascita. Ricordi di un
percorso d’adozione, di lungaggini burocratiche, di un senso d’impotenza, di
un’attesa, di rifiuti. La memoria non dovrebbe essere luce calda che illumina
la felicità di un tempo passato, papà? E allora perché io sento così freddo?
Perché, mentre raffiche di ricordi mi trapassano ancora una volta come frecce,
mi sento ghiacciata? Perché sento dolore nel lasciarmi toccare dalla memoria? Perché
questo dolore diffuso, un dolore che avvinghia ogni lembo di pelle e strapazza
il cuore? Da dove viene questo male che graffia e questi miei ricordi che sono
essi stessi graffi dentro al sangue, squarci nella luce della memoria? Ma senza
pensarci troppo viaggiamo, papà, nuotiamo tra i ricordi e manteniamoci a galla
perché alla fine di ogni oceano c’è una spiaggia che ci attende."
RASSEGNA STAMPA
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