domenica 15 dicembre 2013

Chiara di Assisi- elogio della disobbedienza": il nuovo libro di Dacia Maraini

"Chiara di Assisi - elogio della disobbedienza" è l'ultima opera di Dacia Maraini nella quale l'autrice si cimenta nell'impresa estremamente interessante di analizzare la vita di una delle più note sante della tradizione cristiana. Ma in modo del tutto innovativo, dimostrando ed estrinsecando il carattere rivoluzionario dell'atteggiamento della Santa. Nell'opera della Maraini Santa Chiara viene narrata innanzitutto come donna, mediante una descrizione che ne rende vivi il corpo, la fisicità, i bisogni, i sentimenti  e la fragilità mista ad una grandissima forza d'animo. La tecnica narrativa utilizzata dall'autrice è di grande effetto. Si tratta di una corrispondenza di email tra l'autrice stessa e una misteriosa ragazza di nome Chiara che con fervore, e a tratti con prepotenza, chiede alla scrittrice di documentarsi rispetto alla vita della Santa con l'obiettivo di ricostruire e scrivere la storia. Questa struttura permette a Dacia Maraini di spaziare tra molti argomenti riconducibili sì alla vita di Santa Chiara ma sopratutto alle tematiche che maggiormente le stanno a cuore come la condizione della donna, il rapporto tra essere umano e potere, la complessità delle vite e delle storie umane. Scrive ad esempio l'autrice interrogandosi sulla povertà delle monache di San Damiano: 

"È possibile che la povertà rappresentasse un grandissimo progetto di libertà femminile? Possedere, dice Chiara, vuol dire dipendere da qualcosa è da qualcuno. Quindi possesso significa controllo. Controllo economico, politico, sociale, psicologico, religioso. E controllo rigorosamente maschile. " 

E poco dopo ecco che il lettore è condotto alla scoperta della storia dei catari:

"Li accusavano di rifiutare l'eucarestia. Li accusavano di non credere nel Cristo risorto, di praticare la povertà ma anche la comunità dei beni, comprese le donne- cosa non vera-di essere arroganti e sfrontati, di disprezzare la Chiesa e le sue cerimonie, di sputare sull'ostia e di rifiutare l'autorità papale. In realtà, quello che i Catari predicavano erano un'applicazione alla lettera del Vangelo, dalla parte di Cristo, contro ogni concentrazione del potere e sopratutto l'idea di uno Stato religioso. La purezza consisteva nel rinunciare ad ogni possesso, nell'assistere i malati, nell'aiutare i poveri. "

Un'analisi ricca, dunque, che colpisce il lettore da molti punti diversi così che questi ne risulti costantemente coinvolto, rapito, sedotto e condotto passo passo attraverso la scoperta di un passato e di un tempo ricco di ispirazioni, misteri e bellezza. Un tempo, il Medioevo, dove sono state poste le fondamenta di quella che sarebbe poi divenuta la nostra storia futura. Questo libro però commuove profondamente anche per l'umanità che la scrittrice fa trasparire, regalando a lettore piccoli scorci della sua vita interiore, intima e partecipata con la consapevolezza che la condivisione dei propri demoni così come dei propri sentimenti crea una catena di partecipazione e crescita collettiva. 
Ecco ad esempio un passo colmo di umana quotidianità:

"Notte insonne. La voglia di dormire mi si aggrappa alle palpebre che diventano sempre più pesanti e brucianti. Ma appena chiudo gli occhi, li spalanco di nuovo, allarmata. Come se il sonno mi dovesse ferire o rapire e portar in luoghi lontani e pericolosi. Allora mi sforzo di tenerli aperti.  E per distrarmi, prendo un libro e leggo. La lettura mi fa stare sveglia. Finché il volume non mi casca dalle mani. A questo punto spengo la luce. Forse ci siamo. Ora potrai dormire, mi dico. E invece appena mi sistemi sul cuscino, un pensiero lancinante mi colpisce la mente. È un pensiero di perdita. La perdita della coscienza. Forse sto svanendo e non me ne rendo conto. Forse al di la del sonno c'è la morte in agguato. Devo rimanere sveglia per ritrovarmi viva, presente e consapevole. Non voglio svanire nel buio, senza saperlo. E quindi riaccendo la luce, mi rimetto a leggere. Finché davvero non mi addormento. Ma di un sonno leggero che si interrompe al primo piccolo rumore."

E sembra quasi di vederla la scrittrice, dipinta da se stessa con queste dolci ma inquiete parole, che affronta una sensazione fortemente umana e universale, l'irrequietezza di una notte inquieta in cui paure è angosce provenienti dall'oscuro della nostra interiorità ci afferrano senza darci tregua. E allora ci aggrappiamo a qualcosa, a qualcuno, ad un pensiero, una speranza, un libro, un ricordo, un amore per ritrovare pace: è poesia. 

Ma al di la della vita umana, corporale e interiore che ogni pagina di questa opera trasuda, Dacia Maraini riesce a fornire al lettore sempre nuovi spunti di riflessione sulla condizione della donna. La storia di Santa Chiara non è ciò in cui si esaurisce questo libro ma è, al contrario, il pretesto per universalizzare la vita particolarissima di questa Santa per rintracciare esperienze, moventi e condizionamenti che facciano riflettere sul presente e le sue insidie. 

"La cosa inquietante è che queste prevenzioni e queste forme di razzismo contro le donne non sono cominciate con i Padri della Chiesa, ma molto prima", dice la scrittrice. "Hanno radici profonde nella cultura greca, che ha teorizzato secoli prima l'inferiorità delle donne. La responsabilità femminile per i greci non consisteva evidentemente nella risposta alla tentazione demoniaca e alla  conseguente cacciata dal paradiso terrestre, come sostengono i grandi religiosi, ma in un'imperfezione di natura. Aristotele avanza l'idea che la donna sia un essere umano imperfetto: 'le donne son maschi sterili.' In base a teorie arbitrarie, lo ascoltiamo quasi divertito asserire che: 'la donna, poiché non possiede sufficiente calore naturale, è incapace di cuocere il suo liquido mestruale fino al punto di cottura col quale diverrebbe sperma. Perciò il suo solo contributo all'embrione è la materia'. Ovvero, come teorizza Apollo nel processo raccontato da Eschilo, il corpo della donna non ha parte nel processo di creazione, ma è solo un vaso che contiene il seme maschile. La sua funzione è quella di conservazione, non di creazione. Solo l'uomo è un essere umano completo"

Nella descrizione di Dacia Maraini Santa Chiara diventa l'emblema di una donna che sceglie di coltivare l'arte della libertà mediante la consacrazione della propria vita a Cristo e alla clausura. Nella comprensione di questo apparente paradosso sta la grandezza di questa opera. 

"Chiara d'Assisi è stata un'antesignana della difesa dei diritti delle donne, anche se non ha mai pensato in termini di rivendicazione , sentimento lontano dalla sua natura e dalle sue scelte di vita. Ma certamente ha messo in pratica quello che molte donne avrebbero voluto e non hanno potuto fare: conciliare un'adesione formale alle regole misogine disposte dall'alto con una prassi di libertà. Una libertà non dettata da egoismi e vendette, ma da una fedeltà ancora più profonda alle proprie scelte religiose. Padrona di sé, autonoma nella elaborazione di un pensiero proprio, rivendicatrice di una libertà se non sociale, cosa impossibile per quei tempi, per lo meno psichica e mentale". 

La libertà richiede coerenza, coraggio, arguzia. Certo, ci sono le grandi battaglie, le rivendicazioni di piazza, che sono sacrosante e necessarie, ma, sembra dirci Santa Chiara, la libertà come obiettivo può essere raggiunto anche mediane un gioco di bilanciamento tra istanze differenti e contrapposte, mediante il passaggio attraverso apparenti compromessi. Bisogna trovare il modo giusto per rendersi liberi, modo che può variare da persona a persona e che trova il proprio fondamento innanzi tutto nella conoscenza di se stessi, dei propri bisogni, dei propri desideri. 

Poco dopo la scrittrice dichiara uno degli aspetti che più le interessano nello studio posto in essere da uno scrittore e che trova conferma anche nella realizzazione di questo libro:

"Mi interessa il corpo imprigionato. Mi interessa il corpo velato. Il corpo mutilato, ma anche gioioso e abitato d a una sensualità segreta e pronta alla sublimazione. Mi interessa il convento come luogo di collegialità e di pensieri celati, come luogo di ubbidienza ma anche di una profonda e arcana libertà." 

Sempre presente è la descrizione del bellissimo e sottile rapporto tra Chiara e San Francesco. La devozione della prima verso il santo votato alla povertà assoluta e l'affetto di quest'ultimo verso Chiara scorrono in tutto il libro. Entrambi sono accomunati dalla lotta contro il possesso che rende schiavi. 

"Chiara e Francesco, decidendo di seguire Cristo in estrema povertà, rinunciano a ogni forma di possesso, sia immediato che posteriore. Loro non inseguono un uso di qualcosa che poi diventerà diritto, ma attingono alla proprietà comune quasi fosse un diritto."

Chiara e Francesco vengono presentati come degli idealisti, cioè come delle persone che credono in delle idee che hanno il coraggio di sostenere, portare aventi e consolidare. Di Chiara sopratutto viene messa in luce la dimensione politica, cioè la capacità di praticare un dissenso in seno al pensiero politico della Chiesa mediante il recupero di una più veritiera aderenza al messaggio cristiano. Chiara e Francesco credono nel dialogo, nelle parole, nel confronto come soluzione e alternativa alla violenza. 

Un'opera dunque forte e possente. Un'opera che ho voluto descrivere ricorrendo spesso alle parole della stessa scrittrice poiché sono convinto che nessuna recensione o critica letteraria può mai sostituire la bellezza vibrane delle parole dell'autore. Scrivere di Dacia Maraini è per me sempre una grande emozione. Passo giorni interi prima di depositare la prima parola. Perché Dacia Maraini mi ha cambiato la vita e le sue opere mi rendono,  giorno dopo giorno, una persona migliore nonché un uomo consapevole della complessità della vita umana e della responsabilità che come tale noi uomini abbiamo nei confronti delle donne in primis e del resto dell'umanità poi. Quest'ultima riflessione forse non è adatta ad una recensione oggettiva e distaccata ma non mi importa, anzi, tanto meglio. I libri sono per me come persone, sono vivi, pulsano, fanno sgorgare sangue e lacrime, sorrisi e miracoli. Conta ciò che si vive, cioè che le parole trasmettono. Perché le parole possono salvare e migliorare le cose. E Dacia Maraini lo ha dimostrato in tutta la sua esistenza. Tutto il resto è solo tecnicismo. 

martedì 15 ottobre 2013

"Sei come sei" (Einaudi) , nuovo e intenso romanzo di Melania Mazzucco


Ci sono libri che sono come una dialisi esistenziale: ti purificano il sangue e ti rimettono al mondo. Ti prosciugano sottraendoti l'anima, rubandoti a te stesso e poi ti restituiscono tutto. Melania Mazzucco fa sempre questo con me: mi prende, intrappolandomi nella sua rete di parole, mi fa vagare attraverso una quotidianità reale eppure così magica e pregna di significato e poi mi riconduce in me stesso, diverso, più ricco, più consapevole. La Mazzucco ha la capacità encomiabile e salvifica per il lettore di saper sviscerare l'animo umano, il mondo nel suo poliedrico atteggiarsi e le interazioni tra corpo e spirito, vita e realtà, essere umano e umanità nel suo complesso. Mentre leggi i suoi romanzi tu non stai solo leggendo ma stai viaggiando cavalcando parole che sembrano diamanti lucenti per quanto combaciano in modo perfetto. Leggi romanzi come "Vita" ( cui come dissi un giorno parlando con la stessa Melania, devo la scintilla che mi spinse ad intraprendere l'attività di scrittore) , "Un giorno perfetto", "Limbo", "Sei come sei" e ti chiedi come sia possibile che delle parole, insieme di segni cui la nostra anima ha dato un significato convenzionale, siano in grado di sfondarti le porte del cuore, farti tremare il sangue e danzare i pensieri. Ti chiedi da dove provenga tanta bellezza, se sia umana, addirittura se sia giusta in un mondo bucato che perde acqua da tutte le parti. Ti chiedi se tu stesso meriti tanta bellezza. E ti rispondi di sì. Sì che è umana, sì che è giusta, sì che meriti di vivere attraverso un romanzo. Perché la bellezza, qualunque essa sia, è di per sé un valore ma la bellezza della letteratura può addirittura salvare il mondo. "Sei come sei", ultimo romanzo dell'autrice non fa altro che confermare il talento indiscusso della Mazzucco. È la storia di Eva, undicenne alle prese con una vita che non le ha mai fatto sconti fin dalla nascita, e dei suoi due padri. Sì, è la storia di due omosessuali, due uomini che si amano e decidono di avere un bambino rivolgendosi ad agenzie specializzate. Ma questo passaggio si scoprirà solo col tempo e , forse, sarà solo un dettaglio di una più grande e ricca storia d'amore che commuove e scardina ogni certezza. Non c'è nulla di esasperato nella narrazione di un amore omosessuale, nulla di ostentato, il dolore si intravede ma è stato già superato dall'amore di Christian e Giose, di esso resta solo il ricordo che rende più umani aperti alla complessità della vita. L'autrice non si mette a descrivere i tumulti interiori di due uomini omosessuali ma si pone oltre, in una dimensione dove l'omosessualità non è più vista come un dramma che rovina la vita di chi è gay ma come un dato di fatto, una dimensione dell'essere. Il focolare domestico è sempre lo stesso e che ci siano una figlia e due padri poco importa perché l'amore, quello vero che genera pur senza concepire travolge tutto e azzera ogni obiezione o finto moralismo. Mentre leggi "Sei come sei" ti viene quasi voglia di ringraziare qualcuno, qualcosa, dio forse, o forse la Musa della poesia perché ti rendi conto, avendone la prova davanti gli occhi, che la scrittura non è morta e con essa anche  il ruolo degli scrittori come costruttori di civiltà. Scrittori che non si mettono a scrivere per compiacere, sollazzarsi nei salotti televisivi o vendere milioni di copie per aggiustarsi la vita e vivere felici e contenti ma che scrivono perché non possono farne a meno, come una terra che deve rompersi, creparsi, esplodere ed eruttare lava, perché sanno che quell'eruzione è urgenza di vivere e di costruire. 

"I figli non appartengono a chi li mette al mondo, non sono un'appendice dei genitori, sono individui. E se uno non può scegliersi i genitori, può scegliersi i maestri. Non è l'uguaglianza la cosa che conta nella vita, ma il suo contrario. È ciò che ci rende diversi da gli altri che può salvarci. Ognuno deve trovare il suo destino." 

Pensieri? Poesia? Filosofia? Sarà il tempo a deciderlo e questo non sarà un problema perché Melania Mazzucco resterà nella storia della letteratura. E nel futuro. Perché è lì che abitano le anime irrequiete. È lì che abita la bellezza che salverà il mondo. 

lunedì 14 ottobre 2013

"Marina Bellezza" di Slvia Avallne





L'ultimo romanzo di Silvia Avallone ha il sapore e l'odore di qualcosa di caldo e familiare. Nonostante i due protagonisti, Andrea e Marina, abbiano alle loro spalle delle famiglie sgangherate, assenti, distratte e nonostante tutta la vicenda sia nient'altro che la descrizione di come ognuno di noi cerchi di superare il vuoto e la solitudine per costruire qualcosa di importante che renda chi amiamo, e in primis i nostri genitori, orgogliosi di noi, "Marina Bellezza, è un inno ai legami familiari, all'attaccamento alla propria terra, alle proprie origini e ad un destino che sembra finire in un vicolo cieco, un destino assurdo che nessuno accetterebbe, proprio come quello che Andrea vuole abbracciare prendendo a fare il margaro, ma che in una società afflitta da una crisi economica e prima ancora di ideali e di valori, diventa quanto di più credibile e poetico si possa immaginare. Accanto ad Andrea e al suo sogno controtendenza c'è Marina, Marina Bellezza che vuole divenire una star nazionale della musica per conquistare il mondo, vittima di quella "fame" di mondo e di vita che domina incontrastata in ogni pagina del romanzo. Marina vuole conquistare la vetta del mondo, una vetta da dove poter dire "ce l'ho fatta, ho vinto anche se da sola, anche con una madre alcolizzata e un padre assente; ho combattuto anche per loro e ho vinto".  Una storia, questa, di ricerca di sé e del proprio posto nel mondo attenta e profonda che viene sostenuta da un linguaggio fluido e scorrevole che narra pacatamente e dipinge immagini vive negli occhi del lettore. 
Punto indiscusso di forza della scrittura di Silvia Avallone sono le descrizioni dei paesaggi che, si percepisce perfettamente, sono ben conosciuti e vissuti in prima persona dall'autrice stessa.
"Il mattino risaliva lentamente la pianura, rischiarava prima il capoluogo a fondovalle, poi le curve della SP 100 a strapiombo al torrente Cervo. La logora ossatura dei lanifici, spenti da decenni, correva lungo gli argini per chilometri e chilometri, fino a diroccare nei boschi. Quasi niente era rimasto"
Descrizioni come questa scolpiscono sulla carta immagini che assumono tridimensionalità e avvolgono il lettore catapultando lo in un contesto reale di oggetti, luoghi e personaggi che pulsano e respirano. L'inchiostro delle parole stampate insomma, in"Marina bellezza" , cede il passo alla carne e ai sentimenti. 

martedì 1 ottobre 2013

Ho visto una prostituta che leggeva

La lettura può salvare, accogliere nelle proprie mani calde di vita e sorreggere: l'ho sempre pensato. Se non altro perché leggere ti fa sentire meno solo, ti catapulta nella ricchezza del mondo, nella complessità delle cose e ti mostra, pagina dopo pagina, parola dopo parola, che dolore, felicità, paura non sono mai fine a se stessi ma possono rappresentare un percorso, una scala che può condurti altrove, nel mondo delle idee dove si può combatte senza ferire e dove ogni volta che si è riusciti a vivere attraverso gli occhi, il sangue e la carne di un altro essere umano anche infinitamente diverso da te, si é riusciti anche a percepire tutta insieme la bellezza dell'esistenza. Ieri pomeriggio ero di ritorno da Roma quando all'improvviso vedo, sul ciglio di una strada costellata di alti pini una prostituta, una ragazza bionda tanto giovane quanto bella. Seduta su una sedia di plastica bianca, una di quelle che si usano per il mare, attendeva probabilmente qualche possibile cliente. E intanto leggeva. Sì, aveva un libro tra le mani poggiato sulle gambe nude e accavallate e leggeva. Questa immagine mi ha ferito come una stonatura in un pezzo di musica classica. Non è stato tanto il fatto che preconcetti e stereotipi possano far apparire strano o assurdo che una prostituta legga ma la tristezza di una vita che non credo, non riesco a credere, sia davvero frutto di una scelta. Insomma: chi mai si prostituirebbe sul ciglio di una strada qualora avesse la possibilità di scegliere, di avere qualche alternativa che squarci il buio senza fine di una vita che appare incurabile e di fare sì sesso, magari anche ogni giorno, ma con la persona amata? Spesso siamo in grado di lanciare messaggi senza parlare, di chiedere aiuto senza proferir parola e di rivolgerci alla vita, quasi pregandola di darci un futuro migliore, con un semplice gesto: leggere un libro. Leggere un libro per strapparsi alla propria vita e condurci in un mondo parallelo dove magari Emma Bovary cerca di vivere appieno contro ogni falso moralismo oppure dove Mattia Pascal riflette sula propria identità invisibile. Ecco, in questo credo: che dovremmo avere tutti la possibilità di scegliere, la possibilità di sperare che il futuro sia migliore, che nessuno più debba caricarci nella sua auto, condurci chissà dove ed entraci dentro, profanare la nostra anima, divellere la nostra dignità. Credo che i libri e gli scrittori debbano farsi carico di questo compito e percepire, nell'atto del loro scrivere, una grande responsabilità consapevoli del fatto che, probabilmente, in qualche parte del mondo, qualcuno starà cercando di sollevare la propria esistenza dalla melma bastarda e densa del dolore proprio a partire dalle nostre parole. È una missione, un dovere forse. Certamente è l'unico modo che io, anima fragile che prova a divenire scrittore, conosco per non abbandonare nessuno al suo destino. L'unico modo per tendere all'altro la mano. Quella stessa mano che passa ore immaginifiche a scrivere come se scrivere potesse cambiare il mondo. 

sabato 28 settembre 2013

Perché le parole di Laura Boldrini sul ruolo della donna nella pubblicità suscitano tanto clamore

Ogni giorno che passa diventiamo sempre piu persone incontentabili, piene di aspettative incolmabili e brucianti di un desiderio di contestazione perenne. Siamo talmente presi dal nostro senso critico (cosa sacrosanta quando equilibrata e intellettualmente onesta) che finiamo spesso per vedere marcio dove in realtà c'è solo la constatazione di una realtà oggettiva. Detto questo non ci si può che stupire della reazione che hanno suscitato le parole della presidentessa della Camera Laura Boldrini la quale ha sostenuto nell'ambito del convegno "Donne e media" che è ora di smettere di veicolare mediante la pubblicità l'immagine di una donna stile "massaia", del tutto prona ai servigi familiari, una donna che, insomma , si barcamena tra fornelli, compiti dei figli e pulizie. Basta infatti navigare ne web per leggere decine di commenti di donne che hanno ritenuto offensiva e riduttiva l'affermazione della presidentessa. Sembra quasi che la Boldrini abbia voluto accusare le donne di servilismo o mettere in discussione l'amore e la dedizione che una donna e una madre possono provare nell'accudire la propria famiglia. Si leggono commenti di donne che elencano minuziosamente le numerose attività quotidiane che  riescono a svolgere anche dal punto di vista professionale nonostante siano ottime madri di famiglia. Dietro tali affermazioni non può non scorgersi l'insidia di un fraintendimento che riconduce ogni riflessione sul ruolo della donna ad attacco personale o a finto moralismo proprio come è accaduto pochi mesi fa quando sempre la Boldrini aveva espresso la sua soddisfazione per la sospensione della trasmissione "Miss Italia". Quello che la presidentessa credo abbia voluto far notare realmente è la deformazione che i media attuano rispetto alla figura della donna che nella maggior parte delle pubblicità appare in ruoli rigidamente standardizzati: o come brava madre premurosa o come femme fatale, donna di seduzione e di fascino. Trovo questo binomio innegabile estremamente riduttivo e offensivo nei confronti delle donne e trovo assurdo che molte di esse siano pronte a scagliarsi contro quella che in realtà era una corretta ed oggettiva osservazione di un dato facilmente verificabile e non invece contro quel sistema che strumentalizza il ruolo di madre a fini prettamente commerciali. Qui nessuno vuole mettere in discussione che una madre voglia prendersi cura della propria famiglia e che sia in grado di farlo con felicità ed efficienza. Quello che si critica è l'indebito sfruttamento di questa dedizione femminile a fini commerciali. Tutto confluisce nel messaggio subliminale per cui la donna deve essere innanzitutto una buona "servitrice" del focolare domestico per poter rivendicare una dignità di madre e di persona. Ma chiediamoci: perché questo stesso discorso non viene esteso anche per gli uomini? Quali pubblicità ci mostrano quale debba essere il modello corretto di padre? E sopratutto perché mai non dovrebbe essere il padre a "servire" la propria famiglia con altrettanta dedizione? Perché non ci viene mostrato un padre ai fornelli, un padre che prepara la colazione o che siede accanto ai figli mentre questi eseguono i compiti? Perché l'uomo deve essere il professionista di successo in giacca e cravatta e la donna la madre col grembiule e il sorriso perennemente stampato sul volto? È questione di messaggi subliminali, di ruoli preconfezionati e impostici dalla società anche attraverso la pubblicità. È questione di credere di essere liberi nelle proprie scelte quando invece spesso ci si ritrova a recitare ruoli scritti da altri. Tra i tanti problemi che sta affrontando l'Italia, le parole della Boldrini sono certamente quello minore e un po' di onesta intellettuale dovrebbe guidarci nello svelamento dei meccanismi più subdoli della pubblità mediatica e del conformismo di pensiero cui ormai sembriamo essere totalmente assuefatti. Sarà che ho sempre vissuto in una famiglia dove padre e madre collaborano costantemente senza imporre ruoli o dare tutto per scontato, ritenere dovuto che sia la donna a lavare i piatti o fare cose simili, ma proprio non riesco a rassegnarmi all'idea di una donna chiusa in un ruolo scritto da altri, in una gabbia allegorica che ha più di duemila anni e che la modernità dovrebbe essere in grado di aprire senza che qualcuno veda messo in discussione l'amore di una madre per ciò che significa famiglia."

domenica 21 aprile 2013

"Il mio Paradiso è deserto" di Teresa Ciabatti (Rizzoli)





“Il mio paradiso è deserto” di Teresa ciabatti è un esempio di vera letteratura che scava nel profondo, fa mettere in discussione certezze e preconcetti e conduce attraverso il dolore umano, i disagi esistenziali e le sofferenze di quelli che sono non solo personaggi di una storia ma tipologie di esseri umani molto più vicini a noi di quanto siamo disposti a credere. Il romanzo racconta la storia di Attilio Bonifazi, denominato per il suo grande potere economico e diplomatico, “l’Ottavo re di Roma”, un uomo forte che ha costruito la sua ricchezza sull’impero dei rifiuti e quella dei componenti della sua famiglia come Marta, ragazza che ha seri problemi col proprio corpo e la propria anima e Pietro, che a suo modo vivrà il proprio dramma esistenziale. Nel leggere il nuovo romanzo della Ciabatti, costruito con uno stile diretto, a tratti sarcastico, in altri lirico e immediato, non si può non immedesimarsi totalmente con i personaggi costruiti, vivere attraverso i loro corpi, guardare attraverso i loro occhi o soffrire il loro dolore. Come ogni vero romanzo l’autrice non esprime giudizi di valore ma fornisce ipotesi di significato, tentativi di comprensione di quella storia meravigliosa che è la vita umana. Ogni gesto, ogni silenzio, incomprensione, sbaglio, orrore, sofferenza diventano un piccolo passo lungo la strada dell’esistenza, della comprensione e accettazione di se stessi e del proprio intimo essere. La scoperta di sé e il vivere ciò che si è e non ciò che gli altri vorrebbero che noi fossimo rappresenta uno dei punti cruciali della storia. È il caso di Attilio, alle prese con i propri istinti ma anche di Marta e di Pietro. Su tutto domina la piena consapevolezza che la realtà è un qualcosa di complesso proprio come la natura umana e l’essere di ogni persona. La scrittura, le storie, i romanzi, sembra dire Teresa Ciabatti, sono la celebrazione della complessità e ricchezza dell’esistenza, il promemoria che ci ricorda quanto vario sia il genere umano e quanto prismatiche le sfumature dell’agire, la sfera dei sentimenti, delle sofferenze e dell’amore. “Il mio paradiso è deserto” è anche un romanzo sull’amore. Ognuno dei personaggi della storia trasuda un intenso bisogno di essere amato, accolto, custodito. Spesso questo bisogno si scontra con un’incapacità di chiedere, di comunicare i propri bisogni, di avanzare la propria richiesta d’amore. Ecco allora che si cade, ci si perde, ci si chiude in se stessi. Ma l’amore, sembra dire ancora l’autrice è in grado di agire spesso da sé, autonomamente e di guarire tutto. Amore che guarisce, amore che custodisce e fa vivere. Un romanzo, dunque, dal quale lasciarsi trasportare, grazie al quale capire un po’ di più le dinamiche umane e dalla cui bellezza linguistica farsi cullare.

lunedì 15 aprile 2013

"A viso coperto" di Riccardo Gazzaniga (Einaudi)






“A viso coperto” (Einaudi Stile libero) di Riccardo Gazzaniga è uno di quei romanzi che ti riconciliano con la lettura e con la realtà e che aprono un vulnus nella concezione, ben radicata in me, che almeno nel panorama italiano, le scrittrici sano superiore agli scrittori. Gazzaniga, che si definisce simpaticamente ma argutamente “operautore di polizia” è appunto un poliziotto attivo nella caserma di Bolzaneto ed è stato il vincitore del Premio Calvino 2012 con una storia che analizza attentamente e poeticamente i rapporti tra forze dell’ordine e ultrà. Al di là della storia raccontata e dei suoi personaggi, che credo sia giusto che ogni lettore possa scoprire e amare da sé, ciò che merita attenzione sono l’intento e il relativo effetto “civili” che quest’opera contiene in sé. “Civile” nel senso di contributo che la letteratura può dare alla costruzione di una società presentando le diverse modalità di esistenza presenti, i diversi regimi di pensiero e di approccio alla vita, alla legge e all’altro. Gazzaniga, lungi dal voler esprime giudizi di valore o condanne, cerca più che altro di far comprendere le diverse posizioni in gioco, cercando di aprire spiragli di significato che siano idonei a far immedesimare il lettore nella realtà da lui descritta e dunque colmare il vuoto tra “il sentito dire” o l’informazione appresa passivamente e “l’esperienza diretta” relativamente al mondo degli stadi e dei complessi rapporti tra poliziotti e ultrà. Ogni lettore potrà così dismettere il ruolo di spettatore che davanti la tv apprende e lascia scorrere nei propri occhi immagini, date dai notiziari, di inusitata violenza e viene catapultato proprio lì, negli stadi, in mezzo alla folla violenta e scalmanata. E tal volta l’immedesimazione è così potente che si prova paura. Paura di venir feriti, di rischiare la vita o di lasciarsi dominare e guidare dall’anima della folla stessa che, come insegna Freud, è spesso dotata di uno spirito proprio e maggiore rispetto alla volontà dell’individuo preso singolarmente. Il linguaggio utilizzato da Gazzaniga è forte e incisivo, realista, diretto e immediato sia nella descrizione delle vite dei singoli e numerosi personaggi, ognuno assediato dai propri problemi e dalle proprie frustrazioni umane, sia nel dipingere le scene corali dove il ritmo e la corrosività delle scene imperano completamente. A tratti si ha l’impressione di leggere qualcosa di Melania Mazzucco e della sua scrittura immensa e visionaria. E proprio la Mazzuco dice, riguardo a questo romanzo: “Gazzaniga costruisce una trama compatta e serrata, trascinando il lettore in un mondo maschile di violenza e frustrazione. Una storia di sogni infranti e follia che diverte, provoca e coinvolge”. Niente di meglio che di queste parole per riassumere la potenza narrativa di Riccardo Gazzaniga e del suo “A viso coperto”. Per chi non si fosse ancora convinto sarà sufficiente leggere uno stralcio di questo romanzo e lasciarsi conquistare dallo stile accattivante e, oserei dire, notevolmente “verista”.


“A prescindere da cosa? Dalla vita? Dalla logica? Dall'essere adulti? Dal fatto che queste sono cazzate?, si chiedeva. Perché così stanno le cose. Sono questioni che sembrano importanti solo a noi. Fuori dallo stadio, tra la gente normale, non hanno senso. Forse é perché non hai figli, Lollo. Oppure perché non ti é mai capitato niente di tanto brutto da farti detestare la vita. Che una volta passata la rabbia, dopo quei secondi in cui ti sentì meglio nella mischia, capisci che quel dolore, quel buco dentro non si riempie mai, per quanta merda inghiotti nella speranza di tapparlo


L’umanità dei personaggi, le loro paure, le loro contraddizioni, le loro delusioni, speranze, assenze: un romanzo corale sulla complessità delle persone.

mercoledì 20 marzo 2013

Intervista a Roberto Paterlini autore di "Cani Randagi"






1) "Cani randagi": perché questo titolo?
L’espressione “cani randagi,” nasce come un inciso. Lo usa Giacomo per riferirsi a quei ragazzi, giovani e incasinati che, come i cani randagi, sono pericolosi ma anche bisognosi d’aiuto. Poi, come cani randagi erano trattati gli omosessuali durante il fascismo e tutte le persone malate di AIDS negli anni ’80, per cui mi è parso che potesse racchiudere tutte le vicende del romanzo.



2) Se dovessi riassumere la storia che racconti nel tuo romanzo?
Le storie sono tre. La prima è ambientata negli anni ’30 in Sicilia: Luigi deve subire il confino di polizia perché arrusu, vale a dire omosessuale passivo. La seconda vicenda è ambientata negli anni ’80: Francesco si reca a Catania per intervistare Luigi sui fatti del confino mentre la sua vita è stata scossa dall’AIDS. Infine, ai giorni nostri, Giacomo trova il nastro dell’intervista, mentre la sua vita è al bivio tra un amore di pancia e un altro di testa...


3) Ora ti riporterò dei passi del tuo romanzo e vorrei che mi dicessi quello che ti viene in mente, il perché di quello specifico passo.
 "Sarà possibile che un uomo ami un altro uomo? Forse che questa attesa diversa, in realtà sia semplicemente l'amore? Certe volte non mi riesce di non pensare che siamo solo dei depravati, quando il desiderio che ho di lui è così forte che quasi mi fa mancare il respiro. Eppure non posso fare a meno di esserlo, se è ciò che sono."


"in realtà io mi sento maschio anche quando lo prendo. Neanche in quei precisi istanti riesco a pensare di essere una donna e che un uomo stia facendo i suoi comodi con me; e non desidero che il mio sesso sia quello di una donna, né il mio corpo, né il mio viso. Di più: non vorrei essere una donna per potere andare con gli uomini come fanno le donne. Mi piace esattamente così, andarci come ci va un altro uomo, come due uomini"


Rispondo a entrambi assieme perché sono passaggi collegati. Negli anni ’30, soprattutto in Italia, il concetto di omosessualità come esiste oggi non era contemplato. Nella visione machista e maschilista di allora era semplicemente avvilente che un uomo nell’atto sessuale assumesse un ruolo femminile, e da questo nascevano i suoi problemi... A differenza che in altri paesi, in Italia non esistevano leggi contro l’omosessualità perché era impensabile che un maschio italiano fosse omosessuale... E questa visione era comune anche tra gli omosessuali stessi, che si consideravano deviati, malati, e in un certo senso giustificavano i loro aguzzini... Luigi, mettendo in dubbio la visione di allora e permettendo alle sue sensazioni di trasformarsi in pensiero, è un rivoluzionario.

5) "Non ha mai in realtà nemmeno avuto una religione o creduto in Dio. Tuttavia, al contrario, è stato sempre istintivamente e intimamente certo che se anche un dio fosse esistito, non l'avrebbe mai criticato né mai avrebbe smesso di amarlo per la sua sessualità o per come aveva deciso di viverla"





Questo passaggio va a inserirsi nel concetto di colpa e di punizione che, negli anni ’80 – anche adesso? – certe fazioni associavano all’AIDS. Matteo, che è sieropositivo, sa che non è così, che non c’è colpa, eppure trovandosi sieropositivo non può fare a meno di chiedersi se la sua malattia non sia proprio una punizione, e dubitare che un dio effettivamente esista e che sia irragionevole e brutale...





6) "Non ti meriti il mio amore, non sei degno del mio amore, dicevano nei film o scrivevano sui libri, ma se era vero che l'amore non si sceglieva, allora non aveva nulla a che fare con la dignità e nemmeno con il merito, e nessuno sarebbe più stato accusabile né si sarebbe dovuto sentire ridicolo o idiota, perché amava un altro che aveva determinate caratteristiche e non altre, semplicemente perché non l'aveva scelto. Nessuno si sarebbe dovuto giustificare perché il suo amore era grasso o calvo o una testa di cazzo, o i suoi piedi avevano sei dita, puzzavano, o..."




Questo passaggio rappresenta un punto di svolta nella vicenda di Giacomo, che è sempre stato un razionale, per non dire un freddo, e ha sempre rifiutato più o meno consciamente i sentimenti. E per lui è un’epifania scoprire che i sentimenti seguono strade proprie, che non sempre sono quelle del cervello. Come tante altre persone, Giacomo ha sempre scelto con il cervello, anche in ambito amoroso, eppure si ritrova innamorato di una persona assolutamente non adatta, come il suo cervello non l’avrebbe mai scelta, e questo rappresenta per lui una caduta dei fondamenti e gli fa mettere in discussione tutto ciò in cui ha sempre creduto.




7) Come ti sei preparato per scrivere "Cani randagi"?

Mi sono preparato, per ciò che riguarda la prima parte, su dei saggi molto interessanti: La città e l’isola di Tommaso Giartosio e Gianfranco Goretti, Il nemico dell’uomo nuovo di Lorenzo Benadusi, e naturalmente il sito internet di Giovanni Dall’orto, un grande studioso di storia omosessuale. Per quanto riguarda le altre due vicende, sono nate dall’intreccio stesso, sono emerse dai personaggi, per cui non è stato necessario un particolare lavoro di ricerca...

8)



 Cosa ha significato per te vincere il premio La giara?




Non do e non ho mai dato importanza al riconoscimento in sé. Riesco a concepire le competizioni in ambito sportivo, ma in quello artistico è più difficile, per quanto debba ammettere che è divertente ed emozionante parteciparvi... Al di là del trofeo, il premio è stato importante perché offriva pubblicazione e promozione, che sono i due aspetti più difficili da trovare per uno scrittore emergente...

9) Cosa significa per te scrivere?
Eh, è una bella domanda a cui fatico a dare una risposta che non suoni, innanzitutto a me stesso, ridondante. La passione per la scrittura è una grande fortuna, credo, perché permette di esplorare se stessi come nella vita è difficile avere il tempo e la possibilità di fare... Banalmente, ti direi che scrivo perché scrivere è davvero entusiasmante. È entusiasmante creare, costruire, sviluppare.

10) 



Che progetti hai per il futuro?
Tra una cosa e l’altra ho iniziato a lavorare al mio prossimo romanzo. Ma al momento sono molto impegnato con la promozione di Cani randagi... 





Roberto Paterlini è nato e vive in provincia di Brescia. Laureato in lingue straniere, ha vinto ne 2006 il Sonar Script Festival con la sceneggiatura "23 anni" e nel 2007 ha pubblicato il suo primo romanzo, "Il ventiquattrenne più vecchio del mondo". Con "Cani randagi" ha vinto, nel 2012, il premio letterario La Giara.

giovedì 28 febbraio 2013

Claudio: breve riflessione sul mio nome

Mi chiamo Claudio e questo mio nome credo rappresenti nel migliore dei modi quello che sono, la mia intima assenza. Claudio, claudicante: significa zoppo. E in effetti lo sono. Sono uno zoppo che cammina nella vita con passo sbilenco, sciancato, uno zoppo che procede per tentativi, cercando  appigli ai quali sorreggersi, corrimano lungo i quali far scorrere le i palmi durante la discesa. Zoppico: è un dato di fatto e non voglio negarlo. Anzi, ne sono orgoglioso come sempre lo si deve essere guardando quello che si è, la propria essenza, debolezza, forza, bellezza. Amo zoppicare perché avere un passo traballante e precario, la consapevolezza di non potercela fare da solo, ti obbliga a cercare quel po' che ti manca negli altri. Allora corro per il mondo, sfreccio lungo la vita, procedo, cercando il completamento della mia forza negli altri, nelle bocche, negli occhi, nelle orecchie, nei sorrisi, nella felicità, nel dolore, nel progresso, nella lotta di altri uomini. Nidifico il mio presente e futuro sulla bellezza dell'umanità, colmo le mie lacune con le parole della gente, curo i miei mali con la luce che splende in fronte ad ogni passante. Zoppo, sono zoppo, da solo non posso percorrere grandi distanze. Ma non è questo che mi interessa. Mi interessa  in realtà poter raggiungere l'obiettivo di una vita creata in una felicita collettiva dove poter gioire della gioia degli altri, gioia che poi diverrebbe anche la mia. Inevitabilmente la mia. Claudio, claudicante, zoppo. Sono e sarò per sempre questo: un uomo dal passo sbilenco che macina anni luce correndo sulle gambe del mondo.

domenica 13 gennaio 2013

"Almeno un grammo di salvezza" di Nicola Vacca


Le poesie di Nicola Vacca, scrittore e critico letterario, sono piccole frecce scoccate da chi della parola vuol fare ricerca di significato e lotta contro la costrizione di un pensiero becero e limitato. Ogni componimento tocca una corda del sentire umano e dell’agire sociale e civile di ognuno di noi, cercando di spiegare a noi stessi cosa siamo, chi siamo, qual è il nostro compito? Domande comuni e presenti fin dai tempi dei tempi ma che vengono riproposte in modo innovativo e soprattutto rivestite dall’abito sempre affascinante e necessario della poesia. Poesia che non si ferma all’anima ma riesce a giungere dritta al sangue, allo stomaco, alle ossa. Da subito incontriamo una lirica sul perché dello scrivere, sul motivo per il quale l’uomo sente il bisogno di estrinsecare il suo sentire dandogli forma e concretezza quasi a volerne fare uno strumento per toccare materialmente il mondo.

“Si scrive per riempire un vuoto
ma anche per trovare un posto
a quelle parole che non ce l’hanno.

Si scrive per consegnarsi al nemico
che ognuno ha dentro
ma anche per resistere
davanti al suo ultimo attacco.

Si scrive soprattutto
per chiedere scusa
alla persona che ci sta accanto.

Si scrive per capire se è vero
che un lieto fine ci aspetta
al termine della strada.

La scrittura, dunque, viene dipinta come in grado non solo di descrivere ma anche di creare la realtà trovando un posto alle parole e a i concetti che sembrano esserne privi. E se si pone attenzione al primo significato in greco della parola poesia resteremo affascinati dal fatto che esso è “fare, creare, produrre”. La poesia, e Nicola Vacca lo spiega perfettamente, è un fare attivo e concreto, un incidere sulla vita col desiderio di mutare le cose, svelare i sentimenti e i moventi del nostro essere uomini. Si scrive poi per fare i conti con i propri mostri, per affrontarli, vincerli e consegnarsi a essi. Si scrive per spezzare la catena del male e iniziare a generare bene. Nel leggere le poesie contenute nell’opera “Almeno un grammo di salvezza” (Edizioni Il Foglio) viene spontaneo chiedersi il perché del titolo. L’autore provvede a spiegare anche questo con la lirica che dà il titolo all’intera raccolta.
Almeno un grammo di salvezza

“Il cielo è ferito
la bellezza del mondo
si tramuta in cenere.
Sotto i riflettori di questa luce buia
riesce quasi impossibile convivere
con un mondo senza padri.
Occhi freddi negano
il segno di un bene che soccombe
alla potenza senza scampo del male.
Almeno un grammo di salvezza
ci sarà concesso
dalla preghiera che apre la mente.”

“Almeno un grammo di salvezza” è forse ciò che ci tiene in vita nonostante il male del mondo, l’obiettivo cui consapevolmente o meno siamo protesi e che ci permette di non soccombere sotto il peso del nostro essere precario e malconcio. La preghiera che potrebbe portarci la salvezza di cui si parla viene definita come una preghiera che apre la mente, come la preghiera del pensiero dunque, quel pensiero grazie al quale possiamo emancipare noi stessi dalle tenebre di un pensiero monolitico e unidirezionale. La preghiera che ci permetterà di riscoprirci parte integrante di un mondo fatto di infinite verità.

Stilisticamente le poesie di Nicola Vacca sono protese alla ricerca di un linguaggio lineare e armonico, lontano da sperimentalismi eccessivi, da fronzoli e virtuosismi che rendono spesso poco fruibile la poesia. Armonia sempre presente, musicalità non scontata e immediatezza sono dunque i caratteri principali dello stile dell’autore che nel suo “Almeno un grammo di salvezza” cerca di dare vita a una forma di poesia che non sia espressione artistica elitaria e chiusa nella sua torre d’avorio, ma parola del mondo, delle persone, della vita vera.