martedì 6 giugno 2017

Intervista a Giovanni Ragonesi, autore del romanzo "la primavera da lontano" (Ad est dell'equatore)


Oggi ho il piacere di ospitare su "Just Humanity" Giovanni Ragonesi per parlare del suo romanzo che tratta temi importanti e attuali come la sessualità in tutte le sue forme e talvolta degenerazioni, il rapporto familiare, il senso di solitudine che sempre più di frequente caratterizza la nostra vita. Una storia avvincente di forte impatto sorretta da uno stile scorrevole e diretto. 

Nel tuo romanzo racconti la vita di Valerio, un uomo devastato
dalla dipendenza da psicofarmaci e da una vita che sembra fare acqua
da tutte le parti. Puoi raccontarcelo meglio?

Più che un uomo, io vedo Valerio come un ragazzo intrappolato al di là della linea d'ombra. La sua difficoltà è proprio quella di non riuscire a traslocare oltre quella soglia, che è sì anagrafica (lui vive i trent'anni come un'età spartiacque), ma è soprattutto rappresentata da quel momento a partire dal quale si riesce ad avere una idea unitaria del proprio sé. Valerio questa idea non riesce a vederla, si vive intrappolato in una immagine dai contorni abbozzati (la maschera/personaggio dell'eterno adolescente), con un centro (il lavoro) che non ha nulla di nevralgico, è semplicemente un diversivo. Un lavoro che, malgrado i suoi aspetti provocatori, o quantomeno non consueti, è un semplice generatore di reddito che lo assorbe oltre misura, lo svuota di ogni energia, al punto che non ha tempo e spazio per l'emotività. Il vuoto che vive è una rimozione, dei suoi bisogni e della sua natura; è una fuga non consapevole dal desiderio di non essere solo e dal bisogno di isolarsi (un equilibrio fragilissimo, difficile e instabile).


Valerio è omosessuale ed è un assiduo frequentatore di chat. Un
giorno decide però di fingersi ragazza paraplegica e di intavolare una
conversazione con un giovane che sembra non essere intimorito dalla
sua malattia...


Le chat sono uno strumento comodo e semplice per conoscere persone e soprattutto per fare sesso. Veloci e poco impegnative, se si vuole: molto “funzionali”. D'altro canto possono anche essere delle bolle relazionali in cui vigono delle particolari leggi di spazio, di tempo, di identità e di intensità. Sono anche dei palcoscenici animati da proiezioni e desideri, proiezioni del tutto disfunzionali spesso. Come nel caso di Valerio che fugge da sé stesso, finge, gioca con incoscienza: sembra non capire appieno che dall'altra parte della connessione c'è una persona reale; egli stesso è una persona reale, anche se non si percepisce come tale.

Valerio non ha un buon rapporto con la famiglia eccezion fatta per
la nonna. Puoi raccontarci questo rapporto?

Ho voluto come sfondo del protagonista – che è anche voce narrante – una costellazione familiare guasta. Le dinamiche tra Valerio e la sua famiglia non funzionano, fondamentalmente perché lui si sente destinato altrove e si colloca sempre su un piano differente. In questa costellazione parentale fa eccezione la nonna e la sua morte è il nucleo pulsante della vicenda. La rimozione di questo lutto forma come un tappo, o una patina impermeabile che chiude i pori e impedisce la traspirazione. Il loro rapporto lo vediamo soltanto come assenza e ricordo, che è un po' come prendersi cura di una cicatrice con la Connettivina: si prova a rimarginarla, ma il segno rimarrà ugualmente, per sempre. É una figura sovraccarica quella della nonna: raccoglie le radici e l'amore incondizionato, il conforto delle abitudini e la forza della quotidianità; è anche impregnata da contraddizioni, quella del tempo che passa e che rimane e che non torna, il confronto con una generazione che è riuscita ad affrontare la Storia mentre si vive la propria con un sentimento atomistico e disfattista. Questo rapporto mi ha creato non pochi problemi: da una canto quella della nonna è una figura logorata da un utilizzo melò sempre facile a scivolare sul patetismo o sui “consigli di vita” (come un calendario parrocchiale o certe canzoni sanremesi); d'altro canto in questa figura ho fatto colare della materia prima dalla mia biografia (le uniche note autobiografiche del romanzo), quindi il coinvolgimento era teso al massimo, il terrore di “rovinare” tutto sempre al grado più alto di allerta, il senso di inadeguatezza rispetto al modello umano e a quello letterario (non dirò qual è per pudicizia) paralizzante. Tutto questo, devo ammettere, è stato molto faticoso, ma inventando questa storia, Valerio ed io, abbiamo fatto lo stesso percorso di catarsi: spalmato di Connettivina la nostra cicatrice.


Pessimo è invece il rapporto con la sorella. Scelta particolare
questa perché raramente si riesce ad immaginare una sorella non in
grado di accettare l'omosessualità del fratello e di amarlo. Perché
hai scelto di raccontare un simile rapporto?

Come ho detto, mi interessava inserire il protagonista in un panorama familiare guasto, quindi anche Loredana, la sorella, ha dovuto adeguarsi a questa esigenza. Mi sento di aggiungere che ho già scritto alcune storie in cui era presente – anzi quasi centrale – una forte complicità tra fratello e sorella (scritti che dormono in qualche hardware di scorta in qualche scatola di cartone in fondo all'armadio), per cui mi ha intrigato tracciare un rapporto conflittuale e discordante in questo caso.Comunque, per come le ho viste scrivendole, le conflittualità con la famiglia, quindi anche quella con la sorella, sono più collisioni di sguardi e prospettive che scontri o divergenze sul piano di realtà; piano di realtà dove, a conti fatti, come nella scena finale (che è a occhi aperti), i rapporti in famiglia sono più ordinari di quanto ci si aspetterebbe.



La sessualità è un tema toccato da questo romanzo. C'è una scena
soprattutto di grande impatto dove viene messa in scena come regalo
di compleanno una gang bang della durata di diversi giorni con al
centro il festeggiato. Come consideri il rapporto degli omosessuali
con la sessualità oggi?


Non amo, se non dopo alcuni bicchieri di gin-tonic, lasciarmi andare a grosse considerazioni su temi generali (e comunque l'indomani cambio quasi sempre opinione). Posso dire che una cosa che costantemente noto intorno al sesso (al netto di preferenze, gusti ed etichette), è uno scarto continuo, repentino, a volte violento, rispetto al consueto, alla razionalizzazione, alla emotività, alla comodità e in definitiva alla norma. Ci sono tre spazi dedicati al sesso nel romanzo. Primo: il protagonista lavora nel settore hard, ma in questo ambito il suo approccio al sesso è asettico, diventa soltanto una questione tecnica di luci, di montaggio e di compresse di Viagra. C'è poi la scena a cui fai riferimento, in cui il sesso è protagonista ma è visto in una prospettiva non erotica, è violento, giocoso, grottesco, codificato, inutile... quasi uno scontro di wrestling dove tutto è falso e si recita: coreografie, maschere, costumi, urla e insulti, eppure rimane un concentrato di energie potenzialmente indomabili e distruttive. C'è poi, qua e là, qualche breve parentesi di sesso dal sapore nostalgico, una sorta di rimpianto per una età mai esistita in cui non era necessario inventare ogni giorno una nuova pratica o un nuovo dresscode.

Da cosa nasce questa storia?

Nasce da un accumulo di suggestioni. Il primo grumo che si è imposto è l'immagine della donna con la treccia e gli occhi truccati con il kajal, la fontanella sgocciolante accanto a lei. È un'immagine del mio vissuto che raccoglie molte cose: paesaggi (ho dato a Valerio i miei luoghi), sensi di colpa, paure, sentimenti assoluti e silenzi infiniti. Forse, in definitiva, è stato solo il tentativo di elaborare un lutto (come dicevo prima, ed è superfluo specificare quale), di ricoprire una frattura con un tappeto.

Progetti futuri?

Ho un titolo, “La nostra parte assente”. Parto sempre da un titolo, anche se poi lo cambio, come è stato in questo caso. È una storia di sparizioni – ancora – e di fallimenti; un padre in carcere che tenta il suicidio, una figlia che veste solo di bianco e un figlio in nero (complementarietà, e torna ad esserci la complicità fraterna); tutti si cercano senza trovarsi, non hanno le parole giuste per dirsi, raccontarsi, vedono e ascoltano solo l'assenza. Per adesso è meglio non aggiungere altro, magari ne verrà fuori una storia completamente diversa da quella che al momento ho tra le mani.

Una domanda che avresti voluto ti facessi?

Ti ringrazio per non avermi sottoposto le domande di repertorio per gli esordienti: autori di riferimento e contenuto autobiografico.

Puoi spiegarci il sorprendente finale che hai voluto costruire?

Il finale è stato un tentativo di sottomettermi al principio di verosimiglianza che ho trascurato per tutto il resto della storia. Forse, più che una sottomissione, è stato un inchino a metà. Ho lasciato molte cose sfocate, mi sono divertito a non “spiegare”, i piani temporali non hanno obbedito ad alcuna legge empirica. Sul finale però mi sono sentito in dovere di impostare un vago senso di ordine, ricompattare il percorso del mio protagonista all'interno di un paio di coordinate – giusto un paio – e lasciargli spalancata la strada davanti. Purtroppo non sono Kafka.