È
un'opera preziosa quella curata dalla scrittrice e giornalista Francesca Pansa,
un'opera che brilla di luce propria e parla, sussurra, urla al mondo il punto
di vista delle donne sul mondo maschile. Sono piccole ma precise frecce i
componimenti raccolti e riportati in " Quello che le donne pensano degli
uomini" ( Newton Compton editori), opera che stupisce per l'elevato valore
poetico e per il lirismo costantemente presente. Scorrendo le pagine possiamo
incontrare piccole ma immense riflessioni delle scrittrici più preziose del
panorama letterario italiano come Maria Pia Ammirati, Dacia Maraini, Margaret
Mazzantini, Mariapia Veladiano, Alda Maerini, Mariolina Venezia e tante altre.
Ogni riflessione spalanca le porte del pensiero e con intensità crescente apre
mondi nuovi nei quali perdersi alla ricerca di un significato profondo
dell'essere uomo e dell'essere donna.
"Io
sono legato a te anche col corpo, e non saprei spiegarti perché , ma il fatto
di uscire di casa e sapere che ci sei da qualche parte e che io posso vederti ancora...
Però so che questo serve solo a me, e che dopo questi anni, cercando una tua
reazione qualsiasi che ci facesse sperare, ho il dovere di chiederti, figlia
mia, cosa vuoi tu davvero? Vuoi ancora restare? Ti basta ciò che basta a
me?" (
Le voci intorno, Maria Pia Ammirati)
"
Non lo vedevo da trentaquattro giorni esatti. Mi sembrò più giovane, più curato
nell'aspetto, persino più riposato, e lo stomaco si contrasse in un modo così
doloroso, che mi sentii vicina allo svenimento. Nel suo corpo, nel viso, non
c'era traccia della nostra mancanza. Mentre io portavo addosso- appena mi sfiorò
il suo sguardo allarmato ne fui certa- tutti i segni della sofferenza, lui non
riusciva a nascondere quelli del benessere, forse della felicità"
( I
giorni dell'abbandono, Elena Ferrante)
"
Caro amore bugiardo caro amore infinito circolo intorno a te anello per ogni
dito"
(Ballate
non pagate, Alda Merini)
Questi sono solo alcuni dei meravigliosi
brani che si possono incontrare in "Quello che le donne pensano degli
uomini". Dolore, senso di abbandono, voglia di rivalsa, elogio della
complessità dell'esistere e felicità trovano posto in un'opera incisiva e
lapidaria che sa catturare anima e attenzione e dipingere in modo plastico e
tangibile il pensiero delle donne nel loro rapportarsi al mondo maschile.
Un'opera dunque rivolta soprattutto agli uomini per cercare di capire se stessi
attraverso l'immagine riflessa nelle parole delle donne. Un'opera che può
indicare fondamentali punti di incontro tra mondi apparentemente contrapposti.
“Fango”
è la canzona che più amo di Jovanotti (Lorenzo Cherubini). L’amo per le sue
parole e per i concetti espressi, dipinti, scolpiti. “FANGO” è una parola che
amo, Davvero. Penso al termine latino che ne rappresenta l’essenza, HUMUS e non
posso fare a meno di riflettere sul fatto che da questa parola ne derivi un’altra
di assoluta bellezza: UOMO. Siamo esseri umani, siamo uomini, siamo humus,
siamo fango. Il fango se ne sta lì, per terra, nelle pozzanghere, solo, in
attesa di essere calpestato, schiacciato, dimenticato eppure non rinuncia mai a
urlare al mondo le sue componenti: acqua e terra, che per noi rappresentano la
vita. “Io lo so che non sono solo anche quando sono solo”: è tutto qui il senso
del nostro esistere, penso, mentre le parole scorrono nella mia testa per
raggiungere lo stomaco. Ognuno è solo al mondo ma al contempo non lo è perché
il pensiero che ci rende umani e che spesso è altro da noi, ci fa costantemente
compagnia. Sappiamo che anche nella solitudine più totale non siamo abbandonati
al nulla, al vuoto. Ci basterà pensare al resto dell’umanità che ci circonda,
al mondo che pulsa e che vibra fuori dalle mura del nostro dolore per trovare
risposta alla nostra sofferenza e capire come curarci con le persone, lasciarci
contagiare dalla bellezza dell’essere solidali, stretti, avvinghiati, partecipi
dell’anima degli altri. Jovanotti in questa canzone ci parla di un gettarsi
sulle cose prima del pensiero, di un sollevarsi per guardare le cose dall’alto
e contemplarne la bellezza, la preziosità. Ci parla di scale da salire che
vengono paragonate a scivoli perché se è vero che la vita è un percorso in
salita è anche vero che il dolore, la sofferenza, la disperazione, possono
diventare la via d’accesso per la nostra felicità. Sta qui il senso di tutto,
il senso del dolore: trasformare le scale in scivoli, abbracciare la
disperazione è farne felicità. Non cercare la fuga dal dolore ma imparare a
danzare sul suo dorso. E ancora, il cantautore scrive di pericoli concreti,
reali, fagocitanti quali il non riuscire più a percepire la vita e le emozioni,
l’incapacità di sentirci l’anima nel corpo, la felicità nelle membra e la
voglia di vivere nell’accettazione della nostra prismatica essenza. La vita è
un macigno ma noi siamo il vento che lo solleva. E queste parole suonano come
un invito a fuggire l’aridità emotiva, la siccità etica. L’incomunicabilità che
caratterizza il nostro mondo viene dipinta con poche immagini ma ben precise ed
evocative: dialoghi interrotti, mozziconi di pensieri, frammenti di
riflessioni. Perché il mondo corre e strilla, ci urla nelle orecchie e rischia
di farci confondere, di farci divenire sordi. Tocca a noi, alla nostra forza e
alla nostra volontà imparare a cantare con una voce che, seppur non più urlante,
sia più forte e persuasiva. L’amore diventa lo strumento, unico e
indispensabile che può tenere in vita l’umanità, fungere da cemento tra noi e
gli altri, tra noi e la felicità. “E mi confondo con il cielo e con il fango”,
conclude poi l’autore. E ha ragione perché il senso di tutto, il senso di
quello che siamo, forse sta proprio nell’incontro tra le labbra terra e quelle
del cielo. In questo bacio tra miracolo e paura.
“Io lo so che non sono
solo
anche quando sono solo
io lo so che non sono
solo
io lo so che non sono
solo
anche quando sono solo
sotto un cielo di
stelle e di satelliti
tra i colpevoli le
vittime e i superstiti
un cane abbaia alla
luna
un uomo guarda la sua
mano
sembra quella di suo
padre
quando da bambino
lo prendeva come niente
e lo sollevava su
era bello il panorama
visto dall'alto
si gettava sulle cose
prima del pensiero
la sua mano era piccina
ma afferrava il mondo intero
ora la città è un film
straniero senza sottotitoli
le scale da salire sono
scivoli, scivoli, scivoli
il ghiaccio sulle cose
la tele dice che le
strade son pericolose
ma l'unico pericolo che
sento veramente
è quello di non
riuscire più a sentire niente
il profumo dei fiori
l'odore della città
il suono dei motorini
il sapore della pizza
le lacrime di una mamma
le idee di uno studente
gli incroci possibili
in una piazza
di stare con le antenne
alzate verso il cielo
io lo so che non sono
solo
io lo so che non sono
solo
anche quando sono solo
io lo so che non sono
solo
e rido e piango e mi
fondo con il cielo e con il fango
io lo so che non sono
solo
anche quando sono solo
io lo so che non sono
solo
e rido e piango e mi
fondo con il cielo e con il fango
la città un film
straniero senza sottotitoli
una pentola che cuoce
pezzi di dialoghi
come stai quanto costa
che ore sono
che succede che si dice
chi ci crede
e allora ci si vede
ci si sente soli dalla
parte del bersaglio
e diventi un appestato
quando fai uno sbaglio
un cartello di sei
metri dice tutto è intorno a te
ma ti guardi intorno e
invece non c'è niente
un mondo vecchio che
sta insieme solo grazie a quelli che
hanno ancora il
coraggio di innamorarsi
e una musica che pompa
sangue nelle vene
e che fa venire voglia
di svegliarsi e di alzarsi
smettere di lamentarsi
che l'unico pericolo
che senti veramente
è quello di non
riuscire più a sentire niente
di non riuscire più a
sentire niente
il battito di un cuore
dentro al petto
la passione che fa
crescere un progetto
l'appetito la sete
l'evoluzione in atto
l'energia che si
scatena in un contatto
io lo so che non sono
solo
anche quando sono solo
io lo so che non sono
solo
e rido e piango e mi
fondo con il cielo e con il fango
io lo so che non sono
solo
anche quando sono solo
io lo so che non sono
solo
e rido e piango e mi
fondo con il cielo e con il fango
Donna, domina, padrona, mea
domina, madonna; gay, checca, effeminato, lesbica, mascolina: rifuggiamo dagli
stereotipi che si sono incrostati su di noi, in noi, contro di noi. Assurdo
pensare come nel 2012 si debba ancora parlare di pari opportunità, di quote rosa,
di femminicidi, di “contro natura” assurdo che si debba spendere parole per
spingere e spronare al rispetto di qualcuno. Ma questo è quello che accade.
Società maschilista, non solo, società machista, società del maschio di potere.
Non parliamo di delitti passioanali o d’amore. Chi ammazza o usa violenza su
una donna ha smesso d’amarla già da un pezzo e forse non l’ha mai davvero
amata. Il problema è credere che chi amiamo ci appartenga. Chi amiamo
appartiene a se stesso, in primis e al mondo, poi. L’amore non è tenere ma
dare. Se chiudi il pugno la sabbia scivola via, se la sorreggi a palmo aperto
potrai trattenerla un po’ più a lungo ma poi arriverà comunque il vento a
prendersela perché la sabbia, noi, le persone, siamo del mondo. Non è
sufficiente dire e ribadire che è dalla donna che parte tutto, la vita, l’amore,
l’evoluzione se poi a questo pensiero non si associa l’abbandono del pensiero
inveterato per il quale una “buona donna”, una brava madre è quella
rappresentata dalla “brava massaia”, dire che prima, un tempo, quando la donna
stava a casa e non avanzava pretese, in fondo, si stava meglio e che le
famiglie oggi si sfasciano perché le donne non sanno stare più al loro posto.
Abbiamo sbagliato già in apertura, già da quando abbiamo considerato Eva una costola
di Adamo e quando abbiamo attribuito a lei il compimento del primo peccato. In
fondo non è così diverso dal pensiero odierno: Eva tenta Adamo, la donna tenta
l’uomo e lo porta alla violenza sessuale, psicologica, morale. Tu sei una mia
costola dunque sei roba mia. Credo sia giunto il momento di spezzare questo
plurimillenario susseguirsi di assurdità e tornare al momento in cui una
venere, la venere di Willendorf, rappresentava l’essenza della vita. Bisogna
mutare il linguaggio perché non può continuarsi a definire “fico” un puttaniere
e “puttana” una donna che si comporta come il primo. Nessuno è migliore o
peggiore di nessuno per il sesso, nessuno deve aver bisogno di quote rosa,
nessuno deve sentire il bisogno di scrivere quello che io oggi ho scritto. E
non è una questione di forza, di selezione naturale, di ruoli imposti dalla
natura per equilibrare questo mondo. Non sempre è sufficiente una chiave da
inserire in una serratura per aprire una porta. A volte la porta decide di
resistere. Ed è lì che la chiave si spezza!
Per la sessualità il
discorso non è molto diverso. In un Paese, in un'umanità dove si reputa colpa
della donna e della sua eccessiva "avvenenza" la violenza sessuale,
dove l'uomo, il maschio, sembra essere sempre giustificato o compreso se si
lascia andare al testosterone perché si sa, "la carne è carne", non
sembrerebbe strano dire, come pure sicuramente qualcuno avrà fatto o farà, che
un ragazzo dall'atteggiamento effeminato, che si veste di rosa o si mette lo
smalto, può dare fastidio e che, in fondo, un po' se l'è andati a cercare lo
scherno e l'insulto. Ma mi chiedo: che fine hanno fatto l'amore e il rispetto
per la vita, per l'essere umano e la sua identità? Cos'è che davvero turba la
coscienza eterosessuale di un gay, di una lesbica, di un bisessuale, di un
trans ma anche di un nero, di uno zingaro, di un romeno? Cosa spinge ad odiare
e a voler ferire l'altro? Viviamo in una società, ripeto, non solo maschilista
ma fortemente MACHISTSA, una società dove non è sufficiente essere uomini
eterosessuali ma BISOGNA OBBLOGATORIAMENTE essere UOMINI ETEROSESSUALI, ALTI, BELLI,
DI POTERE, IN GRADO DI PIEGARE E DOMINARE UNA DONNA AL PROPRIO PIACERE. Bisogna
essere uomini forti, spavaldi, dominanti. Questo proprio essere, questo ruolo
dominante deve essere continuamente riaffermato a gran voce. Ecco dunque
l'insulto, la reificazione e il disprezzo di tutto ciò che non rientra in
questo ruolo. Non parlatemi, vi scongiuro, di opinione personale e di libertà
di pensiero. Ci sono cose davanti alle quali non esiste opinione ma solo cecità
o capacità di vedere. Un gay non è contro natura perché è frutto della natura, è
egli stesso natura, un nero idem. Ciò che è contro natura è la stupidità e
l'ignoranza perché siamo stati dotati di un cervello per emanciparci e
civilizzarci e non usare ciò che la natura ci ha dato significa andare contro
di essa. Perché c'è così poco rispetto del tentativo di sopravvivenza e di
felicità altrui? Perché questo bisogno di affermare sé, annientando l'altro? Si
potrà essere i più virili, belli, maschili ed eterosessuali degli esseri ma se
non si sa rispettare l'atro si è sicuramente indecenti e ridicoli. Passi pure
l'assenza di una legge contro l'omofobia: dai nostri politici non ci si può
aspettare più di tanto: Ma indigniamoci per la nostra insensata stupidità.
Ho sempre
pensato che i testi dei Negramaro abbiano un elevato valore letterario e credo
che sia proprio questo elemento a consentire un’analisi attenta delle parole
usate nelle loro canzoni. Ogni verso, ogni parola non è messa nel testo per
caso, solo per riempire spazio, creare un suono, una rima. Le canzoni dei
Negramaro non sacrificano mai la bellezza e la profondità del contenuto per
puntare esclusivamente sulla melodia o l’incanto, pur assolutamente presenti,
delle loro musiche. Questo li rende grandi davvero.
Prendiamo un
testo a caso del nuovo album “Ti è mai successo?”
“Ti è
mai successo di sentirti al centro
Al centro di ogni cosa al centro di
quest’universo
E mentre il mondo gira lascialo girare
Che tanto pensi di esser l’unico a
poterlo fare
Sei così al centro che se vuoi lo puoi
anche fermare
Cambiarne il senso della direzione per
tornare
Nei luoghi e il tempo in cui hai perso
ali, sogni e cuore
A me è successo e ora so volare
Ti è mai successo di sentirti altrove
I piedi fermi a terra e l’anima leggera
andare
Andare via lontano e oltre dove
immaginare
Non ha più limiti hai un nuovo mondo da
inventare
Sei così altrove che non riesci neanche
più a tornare
Ma non ti importa perché è troppo bello
da restare
Nei luoghi e il tempo in cui hai trovato
ali, sogni e cuore
A me è successo e ora so viaggiare
Oltre questa stupida rabbia per niente
Oltre l’odio che sputa la gente
Sulla vita che è meno importante
Di tutto l’orgoglio che non serve a
niente
Oltre i muri e i confini del mondo
Verso un cielo più alto e profondo
Delle cose che ognuno rincorre
E non se ne accorge che non sono niente
Che non sono niente
Ti è mai successo di guardare il mare
Fissare un punto all’orizzonte e dire:
”È questo il modo in cui vorrei scappare
andando avanti sempre avanti senza mai
arrivare”
In fondo in fondo è questo il senso del
nostro vagare
Felicità è qualcosa da cercare senza mai
trovare
Gettarsi in acqua e non temere di
annegare
A me è successo e ora so volare...
Volare...
Volare
Oltre questa stupida rabbia per niente
Oltre l’odio che sputa la gente
Sulla vita che è meno importante
Di tutto l’orgoglio che non serve a
niente
Oltre i muri e i confini del mondo
Verso un cielo più alto e profondo
Delle cose che ognuno rincorre
E non se ne accorge che non sono niente
Che non sono niente
Che non sono niente
Che non sono niente
Ti è mai successo di voler tornare
A tutto quello che credevi fosse da
fuggire
E non sapere proprio come fare
Ci fosse almeno un modo uno per
ricominciare
Pensare in fondo che non era così male
Che amore è se non hai niente più da
odiare
Restare in bilico è meglio che cadere
A me è successo amore e ora so restare”
Già il titolo
instaura immediatamente un rapporto diretto e viscerale con il fruitore della
canzone, evoca ricordi lontani, esperienze di vita. Crea immedesimazione,
chiama in causa il vissuto di ognuno di noi. Dominante nel testo è l’elogio di
una sorta di sano “antropocentrismo”, l’elogio della bellezza dell’essere
umano, del miracolo costante che sono le persone. Si parla di un centro
dell’universo occupato da noi, dalla nostra vita e le nostre sensazioni. Viene
evidenziata la possibilità che abbiamo di afferrare e costruire la nostra
felicità gesto dopo gesto, la possibilità, addirittura, di fermare il mondo e
farlo andare al nostro passo, sincronizzare i battiti dei nostri rispettivi
cuori, cercare il senso della vita insieme a lui. E ancora l’idea del ritorno
alle origini per recuperare i pezzi del nostro passato, i frammenti della
nostra anima lasciati, forse abbandonati, per avviarsi nel viaggio della vita,
nel viaggio della crescita.
L’idea del
potere creativo dell’amore e dell’arte, di un nuovo mondo senza limiti da
costruire, un mondo privo, possiamo supporre, di discriminazioni, sofferenze
lotte contro la felicità altrui, uccisione della dignità degli esseri umani.
L’idea dello spogliarsi di sé, delle sovrastrutture per indossare glia abiti
nuovi delle infinite possibilità, della conoscenza senza confini, dell’amare
senza paure. L’idea dell’immensità del nostro percorso esistenziale, di un
viaggio grande come il mare dove camminare, correre, nuotare senza, come dice
il testo, mai arrivare. Perché in fondo il senso di tutto sta nella tensione
verso un obiettivo, verso un sospiro di felicità o una persona da amare e da
cui essere riamati.
Ogni frase
diventa una massima di saggezza semplice ma mai scontata, un pensiero che si
veste di poesia, di fare attivo e concreto per scaldare l’anima e indicare
un’ipotesi di significato.
“Felicità
è qualcosa da cercare senza mai trovare”
“Gettarsi
in acqua e non temere di annegare”
“Ti è
mai successo di voler tornare a tutto quello che credevi fosse da fuggire”
“Restare in bilico è meglio che cadere”
“A me è successo amore e ora so restare”
Per me è poesia. Pura poesia. In un panorama dove la maggior
parte delle canzoni sono solo melodia e aridità di significato, i Negramaro
continuano a comporre piccole opere letterarie. E forse sono più vicini loro
alla letteratura di tanti presunti “scrittori”. Tanto più se ricordiamo come in
Grecia la narrazione delle prime storie avvenisse ad opera degli aedi che se ne
andavano raccontando gesta, miti, significati. Per me è puro amore. Ripeto
amore inteso come A-MORS, negazione della morte. Amore. “Ti è mai successo?”.
Sì e speriamo per sempre.
“Pierre ha pagato il suo nome. Una roccia da portare
con sé. Pierre è mio marito. Per lui io sono qui. È la luce. La luce non può
essere nascosta. Per questo io racconto. Per condividere la luce”.
L’ultima opera di Mariapia Veladiano è un romanzo
dalla bellezza sconvolgente. La delicatezza di ogni singola parola, l’armonia
nella costruzione del periodo e la pacatezza del narrare non ostacolano
l’elaborazione di concetti importanti e drammatici.
Ildegarda è una donna che si trova a raccontare la
propria vita senza mezzi termini, indagando, parola dopo parola, la natura
dell’amore, della paura, del male, della felicità, di Dio.
Il romanzo assume quasi l’aspetto di una preghiera
rivolta all’umanità, a quello che ognuno di noi è con il proprio bagaglio di
precarietà esistenziali e fragilità emotive. L’idea del raccontare come
condivisione di luce e della scrittura come esigenza di sopravvivenza,
strumento di comprensione e di elaborazione coscienziale, perfettamente
espressa nella frase riportata in apertura, è una delle costanti della
scrittura della scrittrice finalista al Premio Strega 2011 con l’opera La vita
accanto.
Scrittura e luce, tormento e sollievo, male e bene,
in un crescendo di pathos, mai ostentato o estremizzato che tocca l’anima e
commuove. Capita così che scorrendo gli occhi lungo le pagine meticolosamente
costruite, quasi intarsiate, dalla scrittrice, si resti trafitti da frasi che
lasciano il segno e fanno riflettere, offrendo spunti di riflessione mai
scontati e, anzi, assolutamente innovativi.
“Della vita
si ha paura a volte, perché non sappiamo se la felicità ci è davvero permessa.
O se dobbiamo soprattutto domare il desiderio di felicità che ci riempie. Se la
felicità è proprio questo impetuoso ammaestrare. Perché il fiume è sempre anche
straripare, le rive su cui camminiamo sono sempre qualcosa che il tempo e le
acque possono abbattere”.
L’indagine sulla felicità condotta dalla Veladiano
coinvolge e cattura, quella felicità sulla quale spesso ci si interroga e che
in “Il tempo è un dio breve” è così vicina eppure così sfuggente, inarrivabile
o forse raggiungibile solo con l’accettazione dell’impossibilità di comprendere
tutto. L’abbandono, agli altri, all’amore, a Dio anche quando gli altri,
l’amore e Dio sembrano essere muti, assenti, distratti: questa potrebbe essere
la soluzione L’abbandonarsi e il lasciarsi custodire. Sperare anche quando
viene meno la forza di credere. Questo è ciò che fa Ildegarda, confidare negli
altri, sperare che il futuro di suo figlio possa essere felice e sereno
nonostante tutto, credere che qualcuno lo amerà e si prenderà di cura per
sempre. Sperare in una luce di cui non riusciamo a vedere lo splendore ma di
cui percepiamo il calore nelle viscere. Cos’è la fede se non la percezione
interiore di un amore non scalfibile e che non possiamo vedere?
“Disse che ci era stato fatto un dono e che non si
poteva resistere alla vita quando si offre a noi con un disegno tanto evidente.
La nostra era stata una seconda nascita, arrivata mentre eravamo nella
disperazione e niente più riuscivamo a immaginare davanti a noi. Disse che
tutto quanto ci dà felicità viene da Dio e che avere paura della felicità è il
più subdolo dei peccati perché dietro un’apparenza di umiltà riveliamo una
riserva radicale nei confronti di Dio, mostriamo che non sappiamo credere che
ci ama sempre per primo, che la felicità è nelle sue mani e che ce la regala senza
applicare contabilità sui meriti le colpe”.
E’ un inno
alla vita, alla gioia e alla felicità, un urlo che squarcia il nostro
tradizionale modo di pensare Dio e la fede. Poveri noi, sembrano dire queste
parole, noi che riduciamo Dio a un qualcosa di piccolo, che ne facciamo un
contabile pronto a calcolare il numero dei nostri peccati e delle nostre buone
azioni per concederci o meno il paradiso. Dio è molto più grande del nostro
piccolo pensiero, sembrano dire, e non sta lì, come la maggior parte degli uomini,
ad ostacolare la felicità altrui.
“La letteratura conosce mote versioni del patto
scellerato. Che io sappia l’interlocutore è in ogni caso il diavolo. L’anima in
cambio del sapere, come se potesse esserci un sapere senza anima. In realtà il
diavolo vince perché provoca la divisione. Fa credere all’uomo che il sapere
possa esistere senza l’anima e questa è la morte vera”.
“Il tempo è un dio breve” è la celebrazione del
sapere consapevole. Del credere, prima di tutto, negli uomini.
Daria Bignardi, giornalista, scrittrice, blogger, conduttrice televisiva, ha accettato di rispondere a qualche domanda sul suo nuovo romanzo "L'acustica perfetta" (Mondadori) per Just-humanity.
1) L'acustica perfetta: perché questo titolo che allude all'idea della
ricerca di qualcosa di perfetto? Credi nella perfezione e se si come la
definiresti?
Purtroppo ci credo. Lo so che è infantile e fallimentare. Eppure l'attimo
perfetto esiste e non posso fare a meno di desiderarlo.
2) Se dovessi descrivere brevemente l'essenza più profonda di Arno e Sara
quali parole, quali aggettivi useresti?
Arno è un uomo che si può permettere di essere integro, Sara un'anima
profonda, acquatica. Insieme hanno conosciuto l'amore.
3) È giusto definire " L'acustica perfetta" un romanzo di
formazione?
Sì lo è, per entrambi.
4) Quale consapevolezza acquisiscono i personaggi nel corso della storia?
Arno capisce cosa è davvero importante per lui, Sara lo aspetta ma sapeva
già cosa sarebbe successo.
5) Maturano una propria idea di perfezione o semplicemente imparano ad
accettare la propria umana
imperfezione?
Imparano entrambi.
6) Il passaggio attraverso l'abbandono, il dolore, la solitudine credi
possano divenire strumento di crescita personale nell'affrontare la propria
vita? Se sì, come?
Senz'altro. Il dolore fa crescere, rende più umani.
7) Cosa significa scrivere per te?
Una passione, un'abitudine e oggi un lavoro difficile e meraviglioso.
8)Quale pensi sia la funzione, oggi, della letteratura?
Raccontarci.
9) Quali autori annoveri tra i tuoi preferiti?
Troppi, dai classici russi in avanti.
10) Ti andrebbe di parlarci del tuo modo di scrivere? Sei una scrittrice
organica e metodica o preferisci scrivere "sotto ispirazione"?
L'ispirazione è l'inizio, poi si procede per impegno e ossessione.
11) Come definiresti l'ispirazione?
Il momento vibrante, di contatto con se stessi e l'universo, in cui nasce
il germe della storia che deve essere raccontata.
12) Quale consiglio daresti ad una persona che vuole provare a divenire
scrittore? Come riuscire ad emergere oggi in un panorama di fatto congestionato
da tanti autori?
Scrivere ed essere spietati con se stessi.
13) Qual è il tuo romanzo preferito?
Non ne ho uno, ma tanti.
Il libro:
Arno e Sara si incontrano da ragazzini e
istintivamente si amano. Un pomeriggio d'estate lei lo lascia, dicendogli che
"le piacciono gli amori infelici". Si ritrovano molti anni dopo,
decidono di sposarsi: sono allegri, innamorati, sembrano felici. Arno è
convinto di darle tutto se stesso e non si spiega le malinconie e le bugie che
affiorano poco a poco. In fondo, la sua vita gli piace così com'è: suona il
violoncello alla Scala, ha avuto tre figli dalla donna della sua vita, non si
fa domande. Ma il disagio di Sara col tempo aumenta, finché una mattina Arno
non sarà costretto da un evento inconcepibile a chiedersi chi è davvero la
persona con cui ha vissuto tredici anni, la donna che ama da sempre. Con
titubanza, inizia a seguire una pista di ferite giovanili e passioni soffocate
e, con crescente sgomento, ritrova il bandolo di storie insospettabili. Può una
donna restare con un uomo che pensa di amarla ma non ha mai voluto conoscerla
davvero? Può un uomo accettare che sua moglie non si fidi di lui? Si può vivere
senza esprimere se stessi? E come incide il dolore nelle nostre vite? Abbiamo
tutti le stesse carte in mano?
("L'acustica Perfetta" di Daria Bignardi, Mondadori, 18 euro)